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Martedì, 30 Aprile 2024
Attualità Atina

Quando l'arte diventa brand, intervista ad UgoArt

Provocazione, libertà e fluidità: sono queste le keywords che possiamo trovare in uno studiolo di poco più di due metri quadri nel centro storico di Atina

Nella città di Atina, in provincia di Frosinone - la stessa città raccontata da Virgilio come una delle cinque alleate di Turno contro Enea - c’è uno studiolo stretto poco più di due metri quadri dal quale sconfinano sagome e colori. È l’universitas rerum di UgoArt, pseudonimo di Enrico Rossi. 

UgoArt nasce tra i banchi di scuola come “marchio anonimo”, un modo per non lasciar traccia di sé come vandalo a gli occhi di presidi e professori. Ma la passione di Enrico può essere ricondotta già alla tenera infanzia.

“Gli unici mezzi con cui mia madre riusciva a farmi stare buono erano fogli e pastelli. Posso dire che il mio percorso artistico è partito da lì. Ho poi frequentato il Liceo Artistico di Sora, in seguito anche l’Accademia di Belle Arti di Frosinone dove però sono stato giusto un anno e non perché non fosse valida, ma a diciannove-venti anni si ha voglia di uscire un pò dai confini. Quindi mi sono iscritto all’Accademia di Roma, quella in via Ripetta, dove mi sono laureato in triennale. Ho anche iniziato il biennio in Didattica e Comunicazione dell’Arte ma - pur mancandomi poco - non ho ancora avuto modo di finirlo. Mi sto dedicando principalmente alla mia arte; il mio lavoro oramai è in giro”. 

Come descriveresti la tua “arte”? Possiamo definirla un brand

“Si, la mia arte è fondamentalmente camaleontica. Un’arte che sta bene su diversi progetti: dalla tela all’abbigliamento fino al progetto comunicazione o al marketing. Ho effettivamente creato un brand e questo mi rende libero nei confronti della mia arte. Questa è una cosa che a me piace da morire”.

Ugo, inoltre, fa fede anche ad un’altra realtà artistica nata qui in provincia di Frosinone: la piattaforma web, e poi galleria d’arte, ADA di Carlotta Mastroianni. Uno spazio che sfida le congetture di un ecosistema oramai sempre più digitale e che tende a puntare su ciò che ancora di buono c’è in questo territorio. 

“Chiaro poi che un punto fondamentale per la mia arte è ora rappresentato da Adadvisor, perché è quella che cura tutto l'aspetto che io non sono capace di fare. Nel senso più pratico: l’artista fa l’artista e il gallerista lo promuove ma soprattutto - come in questo caso - lo incentiva. Mi da la possibilità di fare sempre di più. Diciamo che Carlotta è colei che mi aiuta ad ampliare gli orizzonti, che ad oggi non è per niente poco. 

Come nasce UgoArt? UgoArt nasce per gioco. Nessuno si aspettava che UgoArt diventasse UgoArt, nemmeno io. Ho creato un’identità farlocca, che non esiste, ma che paradossalmente oggi ha più valore di Enrico Rossi”. 

Hai detto che i tuoi progetti si adattano a tutto, essendo il tuo progetto un brand, tant’è che possiamo osservare i tuoi pezzi anche nella forma più “invadente” che è quella della street art. È anche un pò il tuo scopo quello di togliere quanto più grigio possibile dalla città, mi sembra. Giusto? 

“Si. Diciamo che il concetto alla base di chi fa il lavoro di street art è togliere il grigio. Ho sempre cercato di dare una seconda vita alle cose, come fossero un ready-made alla Duchamp, attraverso la street art. Cose che all'inizio avevano un'identità precisa e poi nel tempo sono diventate abbandonate con la street art possono riqualificarsi in qualche modo. Secondo me la natura della street art non nasce come atto vandalico, bensì come arte di privilegio, nobile.

Tante volte mi sono sentito chiamato in causa per aiutare le persone a non abbandonare alcuni posti e a donare la mia arte”.

In questo senso, secondo te, quanto è politica l’arte? 

“Molto. Assolutamente. L’arte è comunicazione e la comunicazione è politica. Io dico sempre che l’arte significa esporsi, significa far capire alle persone qual è il tuo pensiero e la tua visione. E la politica è la stessa identica cosa. Si cerca di ottenere il voto delle persone per il pensiero che esprimi. Quindi diciamo che il seguito di Instagram (dove oramai, che piaccia o meno, si fa arte n.d.r.) paragonabile all’arte sono i tuoi voti. Ti fai quindi conoscere attraverso il tuo pensiero e da lì attrai il pubblico. Pensiero poi promosso o bocciato. Ovviamente da prendere tutto “con le pinze”.

Dunque tutto ciò che è arte visiva, dalla pittura alla scultura fino all’architettura, è molto simile a quello che è un ragionamento politico”. 

Dal diciannovenne-ventenne che ha abbandonato l’Accademia di Belle Arti di Frosinone per farsi spazio nel mondo - “per guardare oltre i confini” - a dieci anni dopo (più o meno), qualcosa è cambiato? Qual è oggi il rapporto con la tua terra? 

“Io dicevo sempre una cosa: a venti me ne vado, a venticinque ritorno. Non è casuale che io abbia lo studio qui, nel pieno centro di Atina, in un posto così intimo. Mi piace la mia intimità, il fatto che qui vengano vengano a trovarmi le persone più “caricaturali” del paese. C’è un tizio che mi dice sempre: se sei povero, sei pazzo. Se sei ricco, sei eccentrico. E credo che questa frase la dica lunghissima su ciò che può essere il paese. 

Quindi sono consapevole che qui ad Atina per me - a livello di ispirazione - è un posto naturale, un posto riservato ed un posto che veramente ti dà la possibilità di creare. In una città non so fino a che punto un artista possa realmente sentirsi libero. 

Io nelle mie radici, nel il mio bar fa colazione tutte le mattine, nel posto dove vivo, mi sento a casa e questa cosa, questa comfort zone, si rispecchia sulle opere, sul mio modo di vedere la vita e soprattutto un'altra cosa: la qualità della vita. Per me è fondamentale perché io ho una qualità della vita qui che non ho avuto ad esempio a Roma, dove ho vissuto per otto anni, che non me ne voglia nessuno”.

Mentre Ugo si racconta mi cade l’occhio su una tela “fuori contesto”. Una tela che potremmo definire frutto di un tecnicismo oramai abbandonato e che lo stesso Ugo vorrebbe rinnegare. 

“Ho sempre cercato di staccarmi dal classicismo che ti insegnano in Accademia. Volevo qualcosa di più. 

Apprezzo molto di più la provocazione, il concetto, la bellezza dell'idea e non la figura estetica perfetta dell'arte. Perché sinceramente Michelangelo c’è stato e non voglio io replicarlo. Non è il mio mezzo di comunicazione. Il mio mezzo di comunicazione sono le facce”. 

Ecco, perché il volto? 

“Il volto perché mi piace raccontare la quotidianità. Ho sempre questa voglia di raccontare quello che vedo e quello che mi succede. E questo agglomerato di facce che in qualche modo si fluidifica uno sopra l'altro, che non ha proprio un genere, mi piace. Anche per un discorso di uguaglianza: non esistono “Ughi Arts” donne e uomini, e questa cosa mi fa molto piacere. Mi fa piacere che non ha un'identità precisa, fluidità allo stato puro”. 

In questo senso, quanto ha perso di originalità l'arte? Ne ha mai avuta? A maggior ragione ora che il dibattito artistico sta vedendo una forte polarizzazione tra ciò che è e ciò che non è con l’ascesa delle nuove tecnologie

“Questa è una domanda meravigliosa. Io penso che l’arte non debba essere vista soltanto come mezzo, ma anche per l’idea. Come abbiamo detto prima l’arte contemporanea è fatta di concetto, di idea, di provocazione. L’arte contemporanea non perde di originalità ma cambia solo il senso delle cose. Vedi con il palloncino di Manzoni o l’attualissima vicenda della banana di Cattelan. Beh queste vicende rappresentano la quotidianità. 

Mi rendo conto che l'arte è una di quelle cose che viene estremizzata di più, perché non si conosce. Ma non possiamo rallentare il processo. Sarebbe pure un po da stronzi, no? 

Se volessimo fare un discorso metaforico sull’arte possiamo immaginare quest’ultima come un treno: dove l’arte da galleria è il primo vagone a cui succedono poi architettura, moda, fino ad arrivare alla cucina. Non possiamo togliere un vagone, che poi solitamente è quello che pone delle domande. Fermare addirittura il processo porterebbe alla collisione di quel treno. 

Io mi rendo anche conto che le persone non vanno più al museo perché li mette sotto esame. Perché il museo è quella roba lì che se io espongono una cornice senza tela, si cade poi nel cliché “vabbè questo potevo farlo anche io” (però non l’ha fatto n.d.r.)

Credo anche che la gente in realtà voglia l’arte contemporanea, solo che non sa ancora ancora come prenderla”.

Puoi vedere UgoArt cliccando qui.

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