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Lunedì, 29 Aprile 2024
L'intervista

Il racconto, la vacanza in Turchia si trasforma in un viaggio tra i terremotati

Intervista a Matteo Rea, infermiere e reporter originario di Acuto

Fotoreportage in Antiochia di Matteo Rea

Matteo Rea è infermiere e reporter. Viene da quel “meraviglioso paese chiamato Acuto”, in provincia di Frosinone. Da sempre appassionato di fotografia - la sua prima Kodak compatta a 17 anni - come infermiere ha avuto modo e fortuna di lavorare in alcune zone dell’Africa Occidentale e in India. Ha definitivamente suggellato il rapporto tra passione e lavoro, tanto da fonderlo, frequentando la scuola Officine Fotografiche di Roma. Lo abbiamo intervistato in occasione del suo ultimo viaggio in Antiochia.

“Tutto era partito come un viaggio vacanza in realtà” - racconta Matteo - “solo che poi, a seguito del terremoto che ha colpito la Turchia, le cose hanno preso una piega diversa. 

Ho telefonato ad un mio amico turco con il quale ho lavorato a Londra, chiedendogli come stesse lui, i suoi famigliari, e - rincuorandomi - mi disse che quei biglietti già fatti potevano comunque rivelarsi utili. Serviva una persona che facesse l'infermiere o il medico per il gruppo, il movimento politico, al quale lui appartiene e da lì mi si è aperto un mondo. Sono sceso in Turchia per affiancare questo gruppo politico, l’ SMF (Federazione delle Assemblee Socialiste), composto da armeni, zaza, curdi, arabi e turchi. Tutti riuniti per portare soccorso nelle zone periferiche di Antiochia, dove il governo non è arrivato. Girano voci secondo cui siano stati rallentati volontariamente i soccorsi in quelle zone”. 

Voci a cui non è fantasioso credere se riconsideriamo il fatto che Antiochia è “un crocevia del mondo” e fa parte di quella zona ex Kurdistan non vista con occhi dolci dal governo Erdogan. Gli stessi media internazionali riportavano la notizia di questi “ritardi”. Ritardi a cui è poi seguito un mea culpa del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, e giustificati con le criticità di trasporto che il terremoto aveva causato. 

“Dunque il movimento SMF ha aperto un centro di soccorso nelle periferie di Antiochia dove ancora non arrivavano aiuti governativi. Molti di questi volontari - come ti dicevo - venivano da ogni parte della Turchia, in maggior numero da Dersim”. Antico nome dell’attuale provincia turca di Tunceli, Dersim - come ci spiega Matteo - “è una regione che protegge le etnie discriminate. Ci fu anche una ribellione nei confronti del governo tra il 1937 e 1938. Difatti, quando sono andato via, per ringraziarmi per il mio apporto alla causa, mi hanno regalato una sciarpa appartenete ad un martire della Ribellione di Dersim”.

A livello sanitario, come si prospettava la situazione? Quali erano le criticità? 

"Con il gruppo aiutavamo circa mille persone sfollate - un gruppo composto da 15 persone n.d.r. - vivevamo in delle tende all'interno di un campo da basket e ogni giorno, ogni persona, era dedita a qualcosa: a dare qualcosa per la colazione, il pranzo, c’è chi dava beni di prima necessità, vestiti. 

Tutto il sistema sanitario era completamente saltato. 

L'ospedale centrale era saltato. Medici e infermieri si riunivano tutte le sere in una piazza centrale, la mattina presto e la sera tardi facevano delle riunioni per cercare di ridare un po’ un senso di vita. Si ponevano degli obiettivi al mattino e a chiusura della giornata veniva fatto un report per tracciare tutto. Al mio amico e collega Özgrun, ad esempio, era stata affidata una zona in cui faceva medicazioni, consegna farmaci ecc. La sera rientrava e riportava tutto in riunione. Sono stati bravi, hanno fatto - e continuano a fare - un lavorone. Anche cercando di ridare una burocrazia al tutto”.

“Il problema è stato un altro: la polizia. Una sera la polizia del Governo è arrivata ed ha sgomberato tutto. Inizialmente, quando sono arrivato, il gruppo SMF era entusiasta della collaborazione che aveva instaurato con le forze dell’ordine locali. Poi i rapporti hanno iniziato ad incrinarsi, non so dirti come e perché. Molto dovevo intuirlo, non c’era nessuno che parlasse davvero inglese. Le uniche persone con le quali interloquivo erano questo mio amico turco Özgrun, visto che esercitava la professione di infermiere in Germania, e una professoressa di inglese del posto. Per  il resto, per comunicare usavamo Google Translate. 

Percepivo comunque la loro rabbia, quella degli abitanti, che si sentivano abbandonati, con il peso addosso di essere un gruppo eterogeneo, appartenente a decine di etnie diverse”.

Gli abitanti del posto come si sono spiegati l’impatto devastante che ha avuto il sisma? Da fonti certe, come il Washington Post o da Kishor Jiswal dell’US Geologica Survey, le aree maggiormente colpite risentivano di una progettazione ingegneristica poco più che sufficiente. 

“Allora uno degli esponenti politici del movimento SMF mi ha raccontato che il Governo, seguendo la logica capitalista del “costruire, costruire, costruire”, ha costruito case e palazzi a basso prezzo e con materiali molto scadenti, pur sapendo che le zone erano ad altissimo rischio terremoto. Indiscrezione confermata anche da altre persone del posto. Andando in giro per la città mi è stato fatto notare che in tutti quei palazzi erano andate le persone più povere, e ti dirò nella zona dove ero io il terremoto non è stato neanche fortissimo”. 

Il primo sisma si è verificato vicino alla città di Gaziantep, nella Turchia meridionale, a circa 90 chilometri dal confine siriano, cogliendo molte delle vittime nel sonno. Il secondo ha colpito invece vicino alla città di Kahramanmaras. Nel primo caso la scossa ha registrato una magnitudo 7,8 alla quale neanche la miglior progettazione edilizia avrebbe resistito. 

Il 20 febbraio, invece, un altro movimento tellurico, stavolta di magnitudo 6,4, si è verificato a 15 km dal centro di Antiochia. Quest’ultimo, seppur di minore intensità, ha contribuito al disastro finale. 

“Tra l’altro loro dicono che i morti sono stati molto sottostimati. Il Governo riporta 45.000 vittime, ma gli abitanti di Antiochia - come pure i media internazionali - ne riportano 50.000 solo ad Antiochia e 150.000 in tutta al Turchia. Il problema è: come fare una conta quando la maggior parte di loro erano immigrati? Una giornalista siriana, conosciuta lì, mi ha descritto la città popolata per la maggiore da siriani e il governo ha tardato quattro giorni per entrare in città, come dicevamo. 

Giravi per la città e vedevi solo una cosa: materassi che uscivano dagli edifici crollati, tra un piano disintegrato e l’altro. Tutti materassi tra le macerie. E la cosa peggiore - anche se il peggio non conosce fine - è che li guardavi e sapevi che lì sotto c’erano le vittime del sisma, perché è accaduto di notte, quando tutti dormivano sui loro materassi”. 

Ma sia chiaro, io non sono un eroe”, chiarisce Matteo. “Io avevo un biglietto, da turista. Sono partito nonostante tutto si, ma per fare il mio lavoro in un posto diverso per un periodo limitatissimo. Sul posto c’era la resistenza, un gruppo di persone che mi ha accolto e che giorno dopo giorno mi ha dimostrato la loro compattezza e voglia di includere. Siamo partiti inizialmente in quindici volontari ma alla fine, chiunque degli abitanti del posto preparava la colazione per il vicino. Tutti davano una mano, mangiavamo insieme. La sera eravamo sempre più gente e faceva ridere, a tratti commuovere, perché alla fine ci chiedevamo “e tu chi sei? Da che parte vieni?”. Quale differenza c’è? Nessuna. La professoressa di cui ti parlavo prima un giorno mi mandò le foto di quella che era Antiochia: moschee, chiese, sinagoghe. Tutto insieme. Dicevano: “siamo un misto di tutto, vivevamo in pace”. Ed era, ed è, un motivo di orgoglio.

Per loro era un grosso orgoglio il fatto che vivevano così tante etnie e faceva impressione perché tu immagini quei posti con paura. Io stesso, leggevo con terrore le avvertenze della Farnesina: “non andare, rischio attentati, rischio rapimenti”. Io certe volte pensavo "andrò a morire",  si sentono storie assurde, no? Poi sono arrivato là e ho trovato un altro mondo. La prima sera che sono arrivato c'era già molta curiosità nel conoscerci e loro non si aspettavano che un italiano arrivasse in quelle zone. E io, ridendo e scherzando gli ho fatto vedere quello che si scriveva sulla Farnesina, che erano un popolo di terroristi, pericoloso. Scoppiarono a ridere”. 

Ma la terra trema ancora, ogni giorno  

“Un giorno sono andato a misurare la pressione a casa di alcuni vecchi signori, dentro una tenda. Tutti avevano la stufa a legna, l'unica cosa che poteva riscaldarli, e quindi tutte le persone la sera si riunivano attorno alle stufette accese e preparavano il tè. Allora quella sera mi capitò di andare a misurare la pressione a questa signora e rimasi là, perché poi le persone sono di un’ospitalità incredibile. 

Eravamo io e l’altro infermiere. Mentre la signora preparava il tè, il mio amico faceva ballare la gamba sul bancale di legno sul quale eravamo seduti. La signora, quando ha sentito pavimento tremare si è fatta cadere il tè addosso per il terrore che fosse una nuova scossa di terremoto.

La cosa ancora più impressionante erano i volti dei ragazzi e delle ragazze, dei giovani. Forse sono state le persone che ho visto più sofferenti, quelle dai diciassette, venti anni, in su. Quelle che hanno ancora un futuro davanti. Vedevo ragazzi giovani, ragazze bellissime, tutte in ciabatte, tutti struccati ovviamente. E questi ragazzi guardavano nel vuoto perché comunque, magari, stavano costruendo il loro futuro: l’università, la speranza di qualcosa. È crollato tutto. 

C’era una ragazza che ogni tanto veniva da noi, un’infermiera di Antiochia. E lei, ogni tanto, la vedevi che se si isolava, la ritrovavo all'angolo del campo di basket a piangere. Aveva perso tutti i suoi migliori amici.

C'era una famiglia, due figli disabili. Arriva il terremoto: sono riusciti a salvare i bambini disabili dalla casa. Prendono la tenda, la loro nuova sistemazione. Vicino alla tenda sistemano la stufa a legna, necessaria per scaldarsi. Secondo terremoto, sta per cadere la stufa di legno dentro la tenda con il rischio di incendiare tutto. I genitori prendono la stufa di legno bollente e la buttano fuori dalla tenda, ustionandosi completamente.

Oppure la nonna della professoressa che mi ha aiutato con l'inglese. La nonna ha smesso di mangiare perché vuole morire. Perché dice che se lei non muore, i suoi figli e i suoi nipoti restano là per lei. Vuole a tutti i costi che vadano via da Antiochia perché era, ed è ancora, pericoloso". 

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