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Psicologia e Salute

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A cura di Dott.ssa Teresa Pomponi

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Le emozioni della sopravvivenza: la paura e l’ansia

Esistono confini precisi tra le diverse emozioni e possiamo dividerle in tre grandi categorie:
1.    Emozioni che servono alla sopravvivenza dell’individuo e del gruppo: paura e ansia.
2.    Emozioni “campanello d’allarme” che avvertono che qualcosa sta interferendo con un buon funzionamento: stanchezza, irritazione, noia, invidia.
3.    Emozioni che segnalano che tutto sta procedendo per il meglio: piacere, gioia.

In questo articolo descriverò le emozioni del primo gruppo che sono quelle che, nella mia esperienza, portano le persone ad incontrarmi a studio.

L’ameba, la più elementare delle creature, può aiutarci a capire come funzionano le emozioni, a partire da quella più antica: la paura. 

L’ameba è dotata di un programma genetico essenziale, in grado di riconoscere gli stimoli nocivi che potrebbero pregiudicarne la sopravvivenza. Essa ingerisce tutti i frammenti che trova, ma assorbe solo quelli che le servono ed elimina quelli dannosi. 
Risalendo la scala degli organismi viventi, il meccanismo che regola la sopravvivenza diventa più complesso: la sopravvivenza vieneinfatti garantita dal riconoscimento di messaggi che possono essere positivi o negativi, come per l’ameba, ma che si accompagnano anche a sensazioni di dolore e di piacere.
Tutto ciò che procura dolore,per l’animale,rappresenta una minaccia e viene evitato; ciò che è piacevole invece viene ricercato. Per poter provare delle sensazioni di dolore e di piacere è necessarioquindi un sistema nervoso piuttosto elaborato. 

Il dolore però non è ancora paura. 
Il dolore implica un contatto immediato. La paura invece può essere provata anche a distanza. Questa differenza fa sì che da un punto di vista evolutivo la paura rappresenti un passo avanti rispetto al dolore puro e semplice. Il dolore infattisolo fino ad un certo punto è di aiuto: può avvisare un animale che sta mangiando la cosa sbagliata, ma il segnale può essere troppo tardivo per farlo sopravvivere.
In un sistema nervoso più evoluto,come quello di alcuni animali e dell’uomo, la presenza dell'olfatto, dell'udito e della vista, i cosiddetti“recettori a distanza”, rappresentano un vantaggio. Consentono di localizzare e di anticipare sia gli obiettivi da raggiungere che le minacce da evitare. Con essi lo spazio psicofisico è notevolmente ampliato: aumenta la consapevolezza, aumenta il controllo sull'ambiente e compare la paura. 

Quando ci allarmiamo e proviamo paura, nel nostro organismo avvengono una serie di modifiche muscolari e viscerali di cui lo stato emotivo è soltanto uno degli aspetti. Si attiva un complesso sistema che ha come obiettivo quello di metterci in salvo, di evitare la morte come per l’ameba. Ma per noi uomini la questione è più articolata. 
La ghiandola ipofisi, collocata nel nostro cervello, dà l'avvio ad una reazione ormonale a catena che produce la reazione attacco-fuga:una reazione immediata in gran parte automatica. Ma la reazione attacco-fuga non è l'unico modo di reagire di un individuo spaventato. Un neonato, per esempio, non è in grado di fuggire eppure si spaventa. Non potendo opporre alle minacce la forza fisica e l'efficacia personale per fronteggiare le difficoltà(attaccando o fuggendo),si affida ad un metodo consono alle sue limitate possibilità: lo schema “afferrare e stringere”. Il neonato si sente sicuro infatti quando è in stretto contatto fisico con chi è in grado di proteggerlo. 
Se dunque la sopravvivenza nel primo e secondo anno di vita dipende dalla protezione che il piccolo riceve dagli adulti che si prendono cura di lui, ne deriva che le prime forme di angoscia non sono dovute tanto alle scarse capacità di un individuo ancora immaturo nel poter far fronte al pericolo, quanto alla impossibilità di affidarsi ad una presenza fisica in grado di rassicurare e proteggere. Ecco perché fino al secondo anno di vita il bambino può essere più diffidente nei confronti degli estranei e avere difficoltà ad accogliere un fratellino.

Nelle prime settimane di vita, un neonato non è consapevole dell'ambiente in cui vive e non si considera ancora separato da esso. Nella sua percezione, il suo corpo si fonde con quello della madre. Egli può anche considerare che il latte sia il prodotto dei suoi pianti e sentirsi onnipotente quando le sue necessità fisiche vengono soddisfatte. Quando più avanti nel tempo inizia differenziarsi dalla madre, il piccolo incomincia a rendersi conto della propria vulnerabilità, ma impara anche che accanto a lui ci sono delle persone che possono fare quello che a lui non riesce e che la sua sicurezza dipende ed è garantita da loro. 
Fino a quando le sue figure protettive lo amano, lo proteggono e lo valutano positivamente egli sa che si prenderanno cura di lui e questo lo fa sentire al sicuro e non più impaurito.

Durante il primo anno di vita si impara dunque che chi è amato è salvo. Si spiega così perché la prima esperienza di angoscia di un bambino è quella legata al timore di essere separato dalle sue figure di attaccamento. Questo timore lo accompagnerà per tutta l'infanzia ed emergerà con evidenza in momenti particolari della sua vita come il primo giorno di scuola, la nascita di un fratellinoela partenza di un genitore. Se la separazione dalle persone amate produce paura, anche la percezione di non essere amati produce paura ancora poiché evoca anch’essa l’angoscia di morte. Oramai adulti, forti e in grado di difendersi alcuni uomini continuano ad entrare in crisi ogniqualvolta ritengano di non essere sufficientemente amati. 
Una parola, un cenno fugace, un piccolo incidente possono essere interpretati come un segno della propria debolezza e produrre uno stato di allerta, di agitazione e reazioni difensive di vario tipo fino alle azioni più complesse come la gelosia anche violenta. 

Una forma di paura più accentuata e insidiosa è l’ansia.
Se la paura è in genere giustificata, cosciente e orientata verso un oggetto, l'ansia è invece spesso diffusa, fluttuante e misteriosa. 
Essere ansiosi è diverso dall'essere preoccupati. 
Se si è preoccupati, lo si è per qualcosa: un esame, un viaggio,per la salute, per il denaro. 
Negli stati ansiosi invece l'oggetto è indeterminato oppure èun “oggetto-pretesto” che nasconde altri tormenti. Per quanto intensa una preoccupazione possa essere, si può ragionare su ciò che disturba esi può anche pensare al modo migliore per intervenire. 
L'ansia invece si presenta come un'esperienza più difficile da governare. 
La capacità che abbiamo di elaborare un pensiero e un linguaggio simbolici, ci consente di imparare dalle esperienze e di prefigurare il futuro. Questo si trasforma a volte in un’arma a doppio taglio: da un lato ci consente di anticipare i pericoli e le minacce, dall'altro può innalzare il livello delle preoccupazioni e diventare ansia.
Grazie alla complessità del nostro cervello possiamo fare previsioni e calcoli anche molto elaborati che ci consentono di prevenire una serie di difficoltà e pericoli. Al tempo stesso però la capacità di immaginare e di prevedere può trascinarci nella trappola del falso allarme. 
Ciò che viene anticipato può essere sbagliato e il futuro che temiamo può essere soltanto nella nostra mente.
A volte non è nemmeno necessario immaginare una situazione pericolosa per diventare ansiosi: basta un dettaglio, una tenue associazione, una sensazione spiacevole ed eccoci rivivere improvvisamente un'esperienza che pensavamo dimenticata. La memoria ci collega con i vissuti del passato e riporta a galla sensazioni e vissuti di tempi lontani e, anche se ci rendiamo conto di quanto irrazionale possa essere una determinata reazione, ciò nondimeno essa può finire col prevalere. 
Le esperienze passate possono dunque condizionare comportamentieattese, creandoci delle ansie che i fatti non giustificano. 

Nella nostra società, dove i pericoli che derivano dai predatori di altre specie non sono più una realtà quotidiana, le minacce maggiori sono in gran parte connesse a tre situazioni: ai pericoli che derivanodainostri simili (rapinatori, aggressori), alla percezione di una mancanza oad un cambiamento nella percezione di sé. 
La prima minaccia è legata alla paura di non essere in una situazione di sicurezza, paura che abbiamo tutti più o meno sperimentato da neonati o bambini. Le altre due riguardano situazioni più complesse in cui  è presente una qualche forma di concorrenza, di competizione e dove ci si sente a rischiofallimento. In queste circostanze si può entrare in ansia quando ci si scopre insvantaggio rispetto agli altri, quando ci si sente più vulnerabili o quando si hanno dei dubbi sulla propria capacità di far fronte agli impegni oalle difficoltà. Anche se le minacce non sono dirette ed esplicite, possiamo sentirci ansiosi al solo pensiero che certi equilibri possano venire alterati.
Tutto ciò che minaccia il nostro orgoglio, che incrina la fiducia in noi stessi o la nostra autostima ci fa sentire più vulnerabili. Tutto ciò che noi percepiamo nei termini di una diminuzione può produrre ansia: uno si tormenta perché il collega è stato promosso ad un livello superiore, un altro perché perde i capelli e teme di apparire invecchiato, un altro perché non ha ricevuto un invito o un riconoscimento. Le minacce possono anche essere indirette e sottili: possono cioè riguardare non tanto la nostra persona quanto il nostro appartenere alla società dei nostri simili. Possiamo provare ansia perché un nostro coetaneo ha avuto un infarto o perché qualcuno ci ha parlato di un fallimento… ecco perché a volte siamo ansiosi “senza una ragione apparente”…

Cosa fare quindi?
1. Prima di tutto è necessario, da parte dei genitori e degli adulti, avere verso i figli e i bambini un atteggiamento che stimoli all’esplorazione del mondo e che non sia iperprotettivo.
Non essere mai esposti da bambini a situazioni stressogene e “pericolose”, come le cadute e il contatto conmateriali non “igienici” o situazioni in cui bisogna trovare una soluzione non già esistente, è ormai accertato essere uno dei fattori che esporrebbe a disturbi ansiosi o fobici.

2. Cercare di vivere la paura come un’emozione vitale ed essenziale. Ha aiutato gli animale l’uomo a mettersi in salvo e ha in origine una funzione protettiva. La paura è un segnale che va ascoltato e compreso, preso delicatamente per mano come un bambino piccolo nelle sue esplorazioni nel mondo. La paura non va evitata (più ci si allontana e più sembra grande e insormontabile),ma va accompagnata adottando un atteggiamento proattivo nei confronti degli eventi,distinguendo tra reali situazioni di pericolo e quelle non pericolose, ma ansiogene.

4. Evitare le lamentele (non lo so fare, non sono capace), riconoscendo i propri limiti e le proprie paure in maniera indulgente (ora non lo faccio, domani forse lo farò) perché è naturale non saper fare tutto e avere delle paure. D’altronde non dobbiamo essere tutti perfetti!(vedi il mio articolo sul perfezionismo su www.teresapomponi.it/stop-al-perfezionismo).


E un po’ come l’ameba, in modo “semplice”,identificarecon accuratezza gli “stimoli interni ed esterni” (amici, partner, lavoro, stato emotivo interno): quelli che non ci piacciono e ci fanno male e non vogliamo, perché sono nocivi (a volte letali!) e quelli che invece ci fanno bene, ci nutrono e ci fanno vivere in armonia (e che non possono mancare mai!). 
 

Dott.ssa Teresa Pomponi
Psicologa – Psicoterapeuta
Via Gorgona, 8 – METRO B1 Jonio
00139 Roma
333.7077652
 

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