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Roma, A proposito di Davis. (2013). Joel e Ethan Coen. (USA), recensione di Daniela Rispoli

Bob Dylan fu poi. Prima era prima, ed era questo. The Gaslight Cafè 1961 - Un chitarrista gallese di madre italiana che canta davanti a quel microfono vintage illuminato da un fascio di luce. Si guadagna l'attenzione degli spettatori con la sua...

Bob Dylan fu poi. Prima era prima, ed era questo. The Gaslight Cafè 1961 - Un chitarrista gallese di madre italiana che canta davanti a quel microfono vintage illuminato da un fascio di luce. Si guadagna l'attenzione degli spettatori con la sua musica folk, sempre fra quelle stesse quattro mura dello stesso club. L'esibizione è la stessa sequenza dell'inizio e della fine del film, e terminato di cantare, dice:"Probabilmente l'avevate già sentita, se non è mai stata nuova e non invecchia mai, è una canzone folk."

All'inizio e alla fine sì, perché la pellicola si apre e si chiude sulla stessa scena in un triste, bastardo eterno, dannato ritorno di quello stramaledetto uguale. Così succede per Llewyn Davis, il gallese uomo adulto col gatto che il talento lo ha. Uno di quei talenti che non produrrà mai soldi. È uno di quei talenti rari, vaganti, che non trascorre più di due notti ospite nella stessa casa scroccando una cena e il divano su cui dormire. Uno di quei talenti che patisce il freddo perché i soldi per comprarsi il cappotto mancano anche quelli. Uno di quei talenti che cantava in coppia con un altro che, un bel momento, ha pensato che forse era meglio lasciarsi cadere giù per il George Washington Bridge. Anche se "è da gran cazzone stupido. Chi lo fa, gettarsi dal George Washington Bridge? Perché uno va a gettarsi giù dal Brooklyn Bridge, tradizionalmente."

Ma quello che canta in quello stesso club dopo di lui, in penombra, con chitarra e armonica, lui sì che sarà il cambiamento.

Ma andiamo per gradi. Era il 1961 e i ragazzi della periferia di New York cantano folk sfidando la sfortuna che li perseguita e che non gli fa intascare un soldo, non gli fa imboccare la strada buona, quella del successo, o almeno quella che li trascinerebbe via dalla mediocrità e dalla malasorte di cui spesso si è artefici. Il folk sta prendendo piede assumendo sempre più una sua identità e di lì a poco esploderà nel Village, nel resto di New York, e sconfinerà poi ovunque.

Ma torniamo a lui, l'uomo adulto cantante gallese folk di madre italiana con la chitarra e il gatto senza nome. Una delle maschere più riuscite dei fratelli Coen. Un uomo che si trascina con la sua valigia, i suoi dischi e la sua chitarra, e quel gatto senza nome, e non trova una sua collocazione, è sempre alla ricerca di qualcosa, di qualcuno, di soldi e una svolta, soprattutto di quest'ultima. Un uomo malcontento che s'imbruttisce nel corpo e nello spirito perché sa quel che vorrebbe, ma non sa come fare a ottenerlo. È in continuo movimento, forse nella speranza di trovarsi, per caso, in quella congiunzione astrale che gli cambierà in positivo la vita. O forse perché non avrebbe un posto in cui andare.

Brusco, nonostante il gatto? Sì, certamente. Eppure basta una vibrazione a mandarlo in frantumi perché quella corazza di ruggine e cemento armato, in verità, è solo una copertura su una pasta morbida e bella che vibra di colori tenui e cangianti di cui tutti gli artisti sono fatti. Un'indagine accurata nel cuore, nello spirito, nell'animo di uno dei protagonisti più assurdi mai visti: Llewyn Davis che riesce a ficcarsi, come solo lui sa fare, in situazioni ancora più assurde, popolate da soggetti completamente illogici e contradditori. Tutto torna in questa pellicola, gli stessi stretti corridoi di questa o quella casa, questo o quel divano, l'autostop su questa o quella macchina prima per andare a Chicago in cerca di fortuna e poi per tornare a New York con la magra consolazione di averci almeno provato. Lo spettro di diventare padre per la seconda volta. Perché una volta sola non basta, perché il cantante singolo non funziona, perché tutto è inevitabilmente, sempre, legato agli altri.

Un'indagine profonda, dentro se stesso, fino alla consapevolezza di essere un inconcludente. Uno di quelli col talento sì, ma anche col posto d'onore nella cerchia dei falliti. Perché l'effetto della sua arte è solo di zittire quei quattro frequentatori del club. Ma l'industria, il sistema, il marketing, girano in maniera diversa. Il produttore l'occhio e l'orecchio li fa funzionare, e sa che con quella roba non si fanno i soldi. Frase che pesa come un macigno su uno dei momenti più tormentati e appassionati di tutto il film, tra sedie vuote, un palco, e un uomo che gli da la sua possibilità. L'unica. Poi Llewyn Davis torna ad essere risucchiato da un vortice di indifferenza, di cinismo, di stranezze, di alternanze tra momenti di sventura e umorismo nero. Dalle menti bizzarre dei fratelli di Minneapolis una storia ironica cucita su personaggi a tratti surreali e strampalati. Fa riflettere? Sì. A volte fa anche male al cuore. Ma certamente fa anche ridere.

DANIELA RISPOLI

INFO

https://www.panorama.it/cinema/al-cinema/a-proposito-di-davis-fratelli-coen/

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