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VIDEO | "In guerra è tutto molto più semplice. Le società complesse non vogliono vedere cosa realmente è"

Il reporter Paolo Martino si racconta: dai viaggi in Medio Oriente passando per diversi campo profughi, fino al ritorno a casa in Ciociaria

Paolo Martino è un regista originario di Frosinone. Nel 2010 interrompe la lavorazione di un documentario in Caucaso per seguire la grande rotta dei viaggiatori che dall'Asia centrale porta al cuore d'Europa, e scrive il racconto Mussa Khan–L'afghano ribelle. In questi anni ha prodotto Just about My Fingers – Storie di confini e impronte digitali (2011) e Terra di Transito (2014), documentari proiettati in tutta Europa e oltre. Ha realizzato decine di reportage, servizi, articoli su tema dei rifugiati.

Hai trascorso molti anni in Medio Oriente. Cosa ti ha spinto lì? 

"Ho vissuto in Medio Oriente per ragioni varie. E’ stata un’esperienza durata molti anni e nella quale ho cambiato spesso lavoro. Mi sono occupato di cose diverse. Forse il filo rosso che ha tenuto tutte queste esperienze insieme è stata una curiosità nata in età molto giovane e che di fatto era una mancanza di fiducia nella spiegazione che andava per la maggiore dopo l’11 settembre 2001. Dopo gli attentati alle Torri Gemelle. Non mi convinceva questa vulgata per cui c'era un nemico comune da quelle parti del mondo, e quindi io ero uno studente liceale all'epoca e ricordo proprio con rabbia, neanche ricordo più il discorso, ma ricordo perfettamente l’espressione del mio professore che - il giorno dopo l’attentato - entrò in classe imbracciando il giornale e parlò con disprezzo di questi attentatori, mettendone in luce il fattore dell’apparenza religiosa e anche, ovviamente, l'estrazione geografica, il Medio Oriente, l'Egitto, eccetera. E questa cosa non mi piacque. Quindi dopo, quando ho avuto la possibilità, sono partito e mi sono fatto un'idea un pochino più personale di quella zona del mondo. Poi, quando ho risolto il mio dilemma, non ho avuto più nulla da fare lì".

A distanza di anni potresti far ricredere quel tuo professore? 

"Allora la domanda è se avrei potuto far ricredere il mio professore? La risposta è che nessuno si fa ricredere. Questo è quello che ho imparato adesso nella mia esperienza di autore. Cioè noi produciamo delle cose con l'intento di di emozionare. E credo che la stessa cosa valga anche per i nostri discorsi, per le nostre tesi. Poi che queste cose vadano in qualche modo posizionate su una convinzione ci può anche stare, ma non vedo una grande differenza tra esprimere un'opinione, anche politica e, diciamo così, l'istinto che ti porta a fare un disegno, una fotografia o a fare un film, un documentario.

Lo fai per emozionare. L’emozione penso che arrivi, la convinzione no, ed è un bene. Cioè, non credo che un professore abbia la speranza neanche di poter cambiare idea. Ma è giusto così perché la vita è fragile. Quindi è bene che le convinzioni restino salde. Mentre io ero già convinto del contrario. Questo l'ho capito. Ero già convinto che non esisteva questo nemico comune e che io non ero minacciato da nessun terrorista e che la mia vita non sarebbe stata in nessun modo influenzata dalle minacce terroristiche".

Come sei entrato in contatto con il mondo del reportage? Ricordi il tuo primo servizio? 

"Allora me lo ricordo benissimo, me lo ricordo benissimo e questa domanda mi è stata fatta spesso, però questa volta mi fa emergere un particolare nuovo.

Ed era diciamo, il connubio tra un qualcosa di esotico, qualcosa che arriva da molto lontano, che arrivava dall’Afghanistan, e qualcosa di molto concreto che era questo cantiere nel centro di Roma, Roma Ostiense, dove questi ragazzi, migranti e rifugiati che arrivavano da laggiù, passavano del tempo prima di continuare il viaggio verso l'Inghilterra, che era la meta di quasi tutti questi migranti afgani. 

Erano ovviamente in arrivo dalla Turchia, dalla Grecia, poi attraverso l'Adriatico e l'Italia meridionale a Roma. E quindi mi ricordo che ero affascinato al contempo da questo cantiere che erano le fondamenta di quello che oggi è un palazzo di x piani che si trova lì, vicino alla stazione Ostiense, nel centro di Roma. E questa ironia, per cui loro costruivano tende di fatte di coperte militari - questo era il loro riparo - che richiamavano tantissimo la vita nomade, la vita che io immaginavo perché non ero mai stato laggiù. Però in qualche modo evocava degli scenari così lontani e per me così affascinanti e evocativi".

Nel 2016 hai girato il "Consiglio di Idomeni”, lungo l’unico tratto che collega la Grecia alla Macedonia. Qui un gruppo di migranti si riunisce ogni giorno per discutere sul loro futuro e sulle strategie per attirare l’attenzione del mondo sulla loro situazione disperata. 

"Allora il Consiglio di Idomeni è un lavoro a cui sono legato per una ragione professionale e una grande lezione personale, che è quella che tutti i videomaker, si pongono di quanto sia necessario girare. Dopo cinque giorni passati in questo campo, profughi dalle proporzioni gigantesche, penso che si parlasse di 10.000 persone - potrei sbagliarmi, ma comunque nell'ordine delle molte migliaia di persone - che vivono campo intende questo gigantesco altopiano, un prato gelido la notte molto caldo d'estate, assolutamente inospitale e lungo i binari di questa ferrovia, che poi sembrava una ferrovia antichissima. Era un luogo molto evocativo, anche quello e anche molto cinematografico. Lì mi sono di fatto bloccato appena arrivato e non ho girato nulla per molti giorni. Non sapevo proprio dove montare la macchina e avevo già dato per scontato che sarei rientrato senza materiale. E poi questa immagine, un reportage di fatto girato nell'ultima mezz'ora prima di tornare a prendere un autobus che mi avrebbe riportato a casa. 

Inciampo in questo cerchio di persone, che poi si vede nel filmato, e mi rendo conto che sta accadendo qualcosa che vale la pena riprendere ed ecco che nasce questo reportage. Apro tra l'altro il montaggio con l'intervento di una donna, non per ammiccare, insomma, a chi vuole per forza vedere delle cose che in verità non esistono. Ad esempio la parità tra i sessi nel mondo arabo non c'è, ma questa immagine per me è forte. Perché? Perché comunque è un cazzotto in un occhio e perché è anche ironico vedere delle persone che infrangono la legge in ogni respiro che fanno e che si trovano su suolo europeo quando non hanno i documenti per farlo. E lo fanno con la convinzione di una rivoluzione popolare. Queste sono persone che fuggono per le conseguenze di un desiderio di rovesciare un regime dittatoriale e vengono in Europa a portare questi metodi proprio laddove non c'è udienza. Quindi questa ironia per me non è immediatamente leggibile. Per me che invece avevo vissuto in Medio Oriente, so che in Siria non si può neanche nominare il nome del Presidente. Ma è ironico per il pubblico". 

Nel 2019 invece hai diretto Pratomagno con Gianfranco Bonadies, per il quale hai ricevuto il Premio Rai al Trento Film Festival. Un documentario che racconta l’amicizia speciale tra Alberto, un bambino nato tra i pascoli e Sulayman, giovane pastore arrivato per mare dal Gambia. I due vivono in quiete e in simbiosi con la terra e con gli animali, finché un oscuro presagio si affaccia all’orizzonte, preannunciando una frattura. Dopo molti anni, Alberto decide di tornare in Pratomagno, nei luoghi della sua infanzia. Ritrovi delle analogie con la storia dei due protagonisti e il legame con la tua terra d’origine? 

"Pratomagno è stato un lusso che mi sono preso di tornare a contatto con la mia infanzia e con l'infanzia di tutti, cioè con la simbologia dell’infanzia. Non soltanto perché il protagonista vero è un bambino di tre anni che ha anche delle somiglianze fisiche col bambino che che io fui, ma perché tutto è un sogno in quel film, cioè l'idea - che poi è l'idea alla base del cinema - è di rappresentare dei simboli e quindi imparare a volere bene ad esempio, entrare in questi meccanismi di come si crea l'affetto e il distacco. Ovviamente il trauma dell'abbandono. O forse il confronto con questo momento della vita che prima o poi arriva per tutti. Però se arriva nell'infanzia è particolarmente doloroso, anche se poi lo si scopre da grandi. Quindi ecco lo considero un un grande privilegio che mi sono auto concesso".

Hai anche girato il videoclip per i ragazzi dei dellarabbia dal titolo “I nostri tempi”. Ecco, come sono i nostri tempi? 

"Il videoclip fatto per questo gruppo musicale, i dellarabbia per l’appunto, è stato un fulmine a ciel sereno. Appena ho ascoltato il brano ho capito che mi serviva un certo panorama visivo, una certa ambientazione e che l'avevo già girato, quindi non c'era bisogno di nuove immagini e perché quelle immagini, che poi sono quelle di quelle del campo di Calais, del campo profughi che viene inghiottito dalle fiamme in pochi minuti, e che anche lì sprigiona una potenza visiva paragonabile a le immagini del sole, di quelle dei telescopi o di una guerra. E rappresentano bene quello che io vivo non soltanto personalmente, ma qualcosa che mi viene difficile sintetizzare in poche parole, che però ha molto a che vedere con con lo stare al mondo in questo momento. 

Perché quelle fiamme, comunque oramai sono visibili a tutti, ma non per questo vengono guardate. Quindi, se è forse esistita un'epoca in cui veramente ci si è convinti che si poteva vivere nella relativa calma, da ogni punto di vista, oggi è chiaro a tutti, finalmente viene da dire, che il conflitto è latente e che ci gira intorno, che tocca anche i confini, quelli più intimi e che quindi bisogna in qualche modo misurarsi con questo fenomeno. Fino a poco tempo fa molte persone erano sedate da questo punto di vista. Non so però se quello che sta avvenendo adesso, il fatto di di aver reintrodotto nel nostro linguaggio i termini che rimandano alla guerra, al conflitto. E non è solo l'Ucraina, ovviamente, perché abbiamo visto subito che la guerra, quando si avvicina, scatena una guerra sociale. I prezzi, l'inflazione e il vicino di casa. E non so se questa cosa, anzi sono quasi purtroppo convinto del fatto che questa cosa scatenerà ancora di più un effetto, diciamo una spirale a spirale in negativo, purtroppo. E quindi forse è meglio non guardarle per niente quelle immagini. Non lo so. Aspettare veramente che arrivino proprio a prenderci a casa. 

Non sono io che devo rispondere a questa domanda. Però avendo frequentato diciamo alcuni conflitti, avendo visto le conseguenze, mi sono accorto che è tutto molto banale. In guerra è tutto molto semplice. In una guerra guerreggiata è tutto molto comprensibile. Quello che si vede è, e quindi significa che le società complesse, dove non c'è la guerra, non vogliono vedere ciò che realmente è, ed una ragione c’è. Ovviamente non mi trova d’accordo questa ragione".

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